
Te la sei cercata
trasformare politicamenteIeri mi è successo di nuovo. Ero appena uscita dal dentista e avevo un dente devitalizzato e mezza faccia paralizzata dall’anestesia. Ero sul motorino e quando mi sono fermata allo stop l’auto dietro di me mi è quasi venuta addosso. Mi sono girata, spaventata ancora di più dal sentirmi vulnerabile a causa del dente, e ho fatto cenno all’uomo nell’auto di stare attento e rispettare le distanze di sicurezza, che per noi che andiamo in motorino sono fondamentali per salvarci la vita.
Lui comincia a ridere, allungano il braccio con la mano tesa verso di me e urlando “ma falla finita! sta scema! sta rincojonita”. Gli dico che è un deficiente, perché il rischio era quello di buttarmi giù e di farmi male! Mi sposto e lo faccio passare. Metto il motorino sul cavalletto e attraverso per andare in drogheria. L’uomo con la cinquecento bianca parcheggia la sua auto davanti a un passo carrabile proprio accanto al tabacchi che si trova accanto al negozio dove stavo andando io. Scende dall’auto e mi viene incontro con braccio e mano tesa urlandomi “a cojona! a stronza”. Sgrano gli occhi e gli chiedo come si permette. Lui, attratto dalla mia temporanea paresi facciale dovuta all’anestesia, sorride e rincara la dose di insulti e invitandomi a darmi una calmata, con la sua mano a un centimetro dalla mia faccia dolorante e anestetizzata. Non indietreggio, anzi vado avanti e si mette dietro lo sportello della sua auto, facendo cenno di muoverlo in avanti per colpirmi con quello. Gli spiego che a calmarsi deve essere lui e che il suo comportamento è spregevole e che potrei essere sua figlia. Lui: “addirittura?” e ride. Gli spiego che comunque non sarebbe contento se a sua figli capitasse quello che stava succedendo a me. Lui diventa serio e mi dice una frase che mi ha addolorato ancora di più degli insulti e che presto spiegherò perché. La frase è stata: “mia figlia è educata e non direbbe mai deficiente a uno più grande”. Gli ho chiesto se l’educazione fosse invece minacciare con la mano a un centimetro dal volto una ragazza e chiamandola cogliona e stronza e puttana o se l’educazione fosse parcheggiarsi davanti all’uscita di un garage, o andare addosso ai motorini che si fermano agli stop. E lui mi ha invitato con fare sprezzante a chiamare i carabinieri. Intanto continuava a ridersela con delle persone dall’altra parte della strada, davanti a un negozio di videogiochi.
Sono entrata in drogheria dove mi è venuto da piangere. Mi hanno offerto dell’acqua. Poi sono uscita e sono torna al mio motorino. Il troglodita dall’altra parte della strada è uscito dal negozio e ha iniziato a fissarmi. Continuava a guardarmi senza togliermi lo sguardo di dosso e io gli ho fatto cenno con la mano chiedendo cosa volesse. Lui mi ha indicata con braccio e mano tesa e, ridendo di me, guardava i suoi amici del negozio di videogiochi dall’altra parte della strada.
Ero terrorizzata. Continuava a guardarmi. Avevo paura che mi prendesse la targa per fare qualche ritorsione nei miei confronti. Avevo paura che mi seguisse fino a casa. Avevo paura.
Non sapevo cosa fare, rimanevo lì sul motorino mentre lui continuava a fissarmi, con le braccia incrociate appoggiate sul tettuccio di un’auto parcheggiata. Pensavo di chiamare qualcuno che venisse a prendermi, che mi aiutasse, ma ho pensato che magari era proprio quello che voleva, perché per picchiare una ragazza in pieno giorno con tutta quella gente ci pensi due volte, ma se avessi chiamato un mio amico…
Mi sono fatta forza e sono andata via, verso casa, terrorizzata.
Ho pianto tutte le mie lacrime e in quel momento mi ha chiamata una mia amica. Le ho raccontato quello che mi era successo e lei è riuscita a spiegarmi che non dovevo avere paura. Cosa che sapevo già da sola, ma lei è riuscita a dirmelo in un modo per cui l’ho capito per davvero. Così ho deciso di uscire in motorino, di farmi una passeggiata da sola, godendomi la mia libertà e coccolandomi con un pezzo di pizza e il panorama del Gianicolo.
Tornando a casa quella frase “mia figlia è educata e non darebbe mai del deficiente a uno più grande di lei” mi risuonava in testa, come anche l’essermi sentita trattata da stupida perché avevo rivendicato il diritto a girare tranquilla per strada col motorino, invitando chi mi toglieva questa libertà a rispettare una regola fondamentale: le distanze di sicurezza.
Quindi io ero una stupida e una maleducata. Il modo in cui mi prendeva in giro con gli amici, quando gli ho chiesto cosa volesse, dal momento che continuava a fissarmi, era quello tipico di chi dice di una donna che è pazza perché ha il ciclo o non scopa. Era quello di chi con disprezzo e nervosismo ti chiede “e continui?” come a dire “non ti è bastato?”.
La mia amica al telefono mi ha spiegato che a lei è successo un sacco di volte e che l’abitudine non ce la fai mai, perché non puoi abituarti a soprusi e violenze e minacce. L’unica cosa che puoi imparare a fare, per te sessa, è non arrabbiarti, non piangere e disprezzare certa gente, provando pena per loro. Perché non si meritano di riuscire a farti stare male, non si meritano di toglierti il sorriso, non si meritano soprattutto la tua paura.
“Mia figlia è educata, lei non direbbe mai deficiente a una persona più grande di lei”. Cosa significa quindi essere educati? Sicuramente non rispettare distanze di sicurezza e divieti di posteggio ai passi carrabili. No. Essere educati significa essere ri-educati, regimentati, abituati a subire. Significa, in una frase “non andarsela a cercare”.
Quello che ho subito è una violenza a tutti gli effetti. Perché avere una mano enorme a un centimetro dal volto mentre ti viene urlato negli occhi con una rabbia animale ogni tipo di insulto, è una violenza. Una violenza spregevole, che va punita, perché non accada mai più.
Te la sei cercata.
Mi ha fatto venire in mente la sentenza dello stupro della Fortezza da Basso. O la sentenza dello stupro di Franca Rame.
Te la sei cercata.
Non solo te la sei cercata la violenza, ma te la sei anche meritata, perché una violenza non punita è una violenza premiata!
Quello che è mi successo è diverso dallo stupro, non è che non lo sappia. Ma la sottile linea che collega i due atti di violenza è terribile, terrorizzante, disarmante. E’ talmente terribile che non riesco a smettere di piangere, che mi sento violata, impotente.
La violenza sessuale è un tipo di violenza del tutto diversa da qualsiasi altra forma di violenza, perché stuprarmi non è come rompermi un braccio. La componente psicologica o emotiva della violenza c’è sempre, ma lo stupro è del tutto diverso, perché colpisce l’interezza della mia persona, colpisce l’organo del mio piacere. E’ questo che viene punito con lo stupro: il fatto che io sia libera di provare piacere. Il piacere è il fondamento della libertà.
Quella che ho subito io è una violenza di altro tipo, è chiaro, è evidente. Eppure ciò che la muove è la punizione, il bisogno di rimettermi in riga, di essere “ri-educata”, di non andarmela a cercare, di starmi zitta, di imparare a subire; il bisogno di terrorizzarmi, di togliermi la mia libertà.
Mi era già successo una volta con un NCC, qualcosa del genere. E fu anche peggiore. Un’altra volta, anzi, altre due volte con due tassisti.
Ieri, quando mi è successo per l’ennesima volta, ho avuto un pensiero, il più sbagliato di tutti. Ho pensato che forse ero io…
Ecco, questa è un’altra declinazione del “te la sei cercata”. E’ uno di quei pensieri che ha chi si sta abituando a subire. Chi ha interiorizzato la voglia di giustizia, la capacità di riconoscere l’errore altrui, come un errore proprio.
Pensare che sei stata tu significa non indossare più slip rossi, significa non potertene più andare in giro libera per la tua città, significa smettere di lottare, significa non sentirti più sicura, avere sempre paura, sentire di avere sempre torto, sentirti sempre una stupida.
Questa storia deve finire. Deve esserci una soluzione che non sia solo il saper gestire singolarmente la proprio emotività. Chi deve avere paura non devo essere io, non devono essere le persone come me, ma deve essere chi sbaglia, chi compie dei soprusi, chi fa azioni violente, chi abusa del proprio potere.
Questa storia deve finire e io dedicherò tutta me stessa a questo. Alla libertà.