Prendiamola con filosofia, non con sportività

interpretare filosoficamente

La filosofia dovrebbe aiutarti a capire tanto bene la vita, al punto da darti una certa serenità nella razionalizzazione della morte. Questo è il modo di pensare più comune e non è sbagliato.
Sarebbe bene usare un po’ di filosofia quando si provano a comprendere certi fenomeni umani universali, tra i quali, quello della fine della vita, campeggia, forse, su tutti. Almeno in termini tecnici, diciamo così.
Il problema è che un conto è capire la morte in senso astratto, sulla quale è possibile pontificare ogni tipo di speculazione, sia teoretica sia morale; un conto, invece, è la morte quella che ti tocca, che conosci da vicino, che ti riguarda.
Insomma quella morte che ti pare sia successa a una persona cara della tua vita e invece è successo a te.
Tuttavia la filosofia aiuta molto anche nei fatti personali e privati, tanto che quel detto “prendila con filosofia” rende piuttosto merito all’uso che si può fare di questa disciplina nella sfera dell’educazione di sé, tranne quando si intenda questo detto con “prendila con sportività” – ecco, no, questo è un pervertimento tremendo di una scienza che non ha niente a che fare con la superficialità (con buona pace di Shopenauer che la usava per rimorchiare le gentili pulzelle bene nei salotti).

Dunque per prendere la morte con filosofia, è necessario quantomeno fare quell’operazione difficilissima per cui si mettono sullo stesso piano l’universale e il particolare. Eh sì, lo so, un po’ di termini tecnici. Ma fin qui non è difficile. E sono anche i soli che si possono usare con sincerità, perché per quanto si faccia questa operazione, resta il fatto, quello particolare che non lo scevri dall’emotività. (Già, perché pur essendo filosofi c’è da restare umani).

Allora iniziamo a prenderla con filosofia. Quindi, è indispensabile evitare di pensare che “succede a tutti” sia il punto da cui partire per accedere all’Universale. No. Quello non è “universalizzare”, quello è “generalizzare”, e la filosofia non lo fa, o almeno non dovrebbe farlo.
Forse bisognerebbe iniziare pensando che “succede perché siamo uomini”. Ecco, già pensando così è più terribile, quindi vuol dire che funziona.
A questo punto scattano i vari buoni propositi, che è un chiaro segnale che questo pensiero ti fa riguardare la morte a te stesso, sebbene ti sembri che sia morto qualcun altro. I “buoni propositi” sono nient’altro che un rito apotropaico dell’Occidente cattolicizzato. Eppure, non è così male farne. Ancora meglio sarebbe farli diventare delle vere e proprie riflessioni su come diventare capaci di costruire una società umana migliore.

Infatti, arrivati a questo punto è bene non sfuggire e continuare su quella linea. Altrimenti si finisce invischiati nella “puzza del morto”, ovvero in quella giostra del dolore che prende il sopravvento sul baricentro, ti da le spinte sulla schiena e tu, tirato in avanti dalla pancia, metti una gamba avanti per non perdere l’equilibrio, mentre testa e spalle restano indietro e, subendo il rinculo, quando atterri dalla spinta, assumi quella classica postura da “che ci faccio io qui?”.
E che ci fai? Ci fai sempre che sei un uomo.
La giostra del dolore innesca la saga della gerarchia degli affetti, senza cattiveria, senza che si sia necessariamente brutte persone, senza l’architettura di un tornaconto personale. S’innesca. E basta.
E’ normale richiedere da qualche parte la certezza che il caro defunto ci abbia amati, perché non può più confermarcelo, e ora che è morto, quella volta che non gli avevi prestato l’accendino perché ne avevi uno solo, che con 40 di febbre non eri andato a prenderti una birra con lui, che quella volta avevi alzato gli occhi al cielo mentre ti ripeteva la stessa cosa da due mesi per venti volte al giorno, ti fanno soffrire terribilmente e pensi che non c’è più tempo per rimediare. A parte fare in modo che tutti sappiano che vi siete amati.
Affaccendarsi per mantenere vivo il ricordo in una sfera più o meno pubblica, risulta il più delle volte, un po’ maldestro. Quindi, meglio evitare. Il dolore è privato ed è giusto che lo sia ed è giusto confidarsi con poche persone care, magari festeggiare in tanti e sentirsi uniti, ma assolutamente non mettere in scena il teatro dell’eroismo comunicativo, che l’eroismo per farlo diventare erotismo, basta una T.

Quindi, filosoficamente, per comprendere la morte, è bene comprendere la vita e l’uomo. Che è egoista con tendenze universali. Praticamente un mostro. Specie quando, consapevole di questa sua mostruosità si mette a fare quello buono e quello buono a campare.
Filosoficamente forse c’è da pensare come gli stupidi, o come Aristotele, e meravigliarsi di tutto. E fare l’unica universalità di cui davvero l’uomo è in grado, checché ne dica il cattolicesimo (pervertendo quello che diceva il suo Profeta, o quello di De André o quello di Marx nel manoscritto sul denaro) e fare l’amore.

 

17 Giugno 2013
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