Una storia d’amore. E d’anarchia (mancata)

interpretare filosoficamente

Dal “Canto del Beato”, passando per Vico, ritrovandolo in Shakespeare, fino poi ad Hegel e arrivando a Marx, il principio dell’eterogenesi dei fini si colora di tanti e diversi aspetti.

La definizione, come tutte le definizioni, di “eterogensi dei fini”, in realtà è solo un modo parziale per indicare la rilfessione sull’azione umana, che accomuna i più diversi sistemi, riflessioni o Weltanschaungen.

Sì, perché il problema centrale qui è proprio l’azione.

L’azione è sempre particolare. La compie l’uomo, è necessariamente effettuale, altrimenti non sarebbe un’azione. Un’azione produce sempre e necessariamente qualcosa.

L’azione è in nostro possesso, quando la compiamo siamo guidati da qualcosa, da un progetto, da un’idea, da un fine, da un obbiettivo. Ma ciò che viene prodotto, quando viene prodotto, non è più in nostro possesso.

Le visioni più spirituali inducono a quella che viene detta “indifferenza”. Ovvero, il principio dell’impossibilità del possesso del fine dovrebbe indurre ad agire senza uno scopo. O almeno senza uno scopo che sia privato.

Ma allora bisognerebbe agire in nome di un’idea o di un ideale…

Insomma ecco il vulnus.

L’azione, che è sempre particolare, ovvero è il contrario del pensiero, che invece è sempre universale, dovrebbe seguire i principi del pensiero, ovvero quelli dell’universalità. Ma a questo punto viene snaturata qualsiasi azione. Come se gli eroi non fossero figli del loro tempo! O come se i santi non fossero figli di un dio, figlio del loro tempo.

Il tempo. Dunque un’azione iscritta in un tempo e in un luogo, guardata dal punto di vista dell’innesco di conseguenze o esiti (ed ecco che si supera il punto di vista spiritule/morale appartenente agli indiani e a Vico per approdare a una didascalia nuda e poetica dell’uomo, quella di Shakespeare) diventa la storia dell’uomo. Nella sua umanità. Nella sua scissione più profonda, a rappresentare nella sua particolarità l’umanità intera. Fatta di moti perversi, di dubbi, di superstizione, di interazioni profonde con la natura e con dio, in una commistione così intrecciata che non riesce più a separarli. Un’azione particolare che diventa universale nell’unico modo in cui può diventarlo: la non appartenza, che riguarda sempre per questo tutti quanti.

Amleto ci dimostra quanto di peggiore ci possa essere nell’indifferenza rispetto all’azione. Non un eroe dunque, ma neppure un santo è l’uomo quando è semplicemente se stesso.

E quanta bellezza nella rappresentazione di tutta la sua bruttura, la sua debolezza.

C’è però un’universalità concettualizzata, si può dire così, di un tempo che scorre e che riguarda l’umanità. E questa è la storia. I nessi storici sono proprio le azioni umane. Sono l’innesco della storia. Che va avanti calpestando vincitori e vinti. Hegel ci mostra eccellentemente come qualsiasi azione non riguarda più soltanto il soggetto singolo che l’ha compiuta, ma riguarda tutto un processo storico che non solo supera la particolarità del soggetto, ma anche quella dello spazio e del tempo in cui viene compiuta.

Viene scardinata così non solo l’idea del fine con cui compiere l’azione, che può essere il più nobile di tutti, ma tanto non ti appartiene. Ma viene scardinata anche l’impossibilità di scoprire gli “esiti”. Un’azione non ha mai un esito e basta, ma si iscrive in un processo, diventa parte vitale di un risultato che non è mai il morto cadavere di se stesso, ma è vitale, ricchissimo e organico, tanto da produrre ancora altri risultati.

Un’azione non è un’azione se non produce qualcosa. Se non modifica la realtà. Se non ha un effetto oggettivo. Solo che questo effetto oggettivo, compiuto in modo particolare e soggettivo, non è più un prodotto mio.

Per questo è stato inventato il denaro. E per questo l’azione è stata ridotta a lavoro. A ogni prodotto è stato attribuito un valore e a questo prodotto+valore è stato dato il nome di merce, così da poter essere scambiata secondo un criterio che è alieno non solo al prodotto, ma anche all’azione. E soprattutto all’umanità dell’azione.

L’oggettivazione della vita è stata alienata attraverso il lavoro salariato.

La dialettica servo-padrone, in cui avveniva il riconoscimento della capacità di trasformare la natura e dunque il lato universale dell’azione e la fondazione di una comunità, in cui il vero scambio avveniva sul piano del riconoscimento e dunque dell’amore, è stata irretita dal conferimento del valore: il lato universale fallace, perché non veramente ed effettivamente universale, ma tale solo perché indifferente.

L’amore, paroletta che i romanzi dell’ottocento spesso hanno svilito, è semplicemente il riconoscimento. Quando la natura si fa uomo. Quando la trasformazione della realtà o dell’altro uomo ti fa dire “tu” e poi “io” e poi “noi”. Per questo non ci siamo estinti e uccisi tutti nella notte dei tempi.

Ecco, questa è la storia dell’azione. O dell’uomo.

Che è una storia d’amore.

29 Gennaio 2013
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