Ha un nome che fa paura

trasformare politicamente

Mio nonno non amava i coltelli. Anzi, mio nonno odiava i coltelli. Per tre mesi d’estate abitavamo tutti insieme: i miei nonni materni e le famiglie dei suoi tre figli. Eravamo tredici a tavola. Ma non ci ha mai portato sfortuna.

A volte capitava che qualche coltello si sollevasse più del dovuto per allungarsi verso il centro della tavolata sconfinata, dove si trovavano sconfinate portate per sfamare tredici persone.
Mio nonno, Renato, non riusciva a guardare e quando ci riusciva i suoi occhi diventavano lucidi.
Un giorno mi sgridò, quando avevo circa sei anni. Mi sgridò perché mangiai un pezzo di carne con il coltello invece che con la forchetta. La sua voce proveniva dalla profondità della terra, mi vibrò dentro come un terremoto definitivo.
Non piansi nemmeno, ma rimasi impietrita, come se avessi commesso il reato più spregevole che un essere umano potesse commettere.

Verso sera entrai nella sua camera, con dei fiorellini che avevo raccolto nei campi, dove andavo sempre a giocare e a sporcarmi di erba e fango (sporcarmi era il mio gioco preferito).
Lui iniziò a piangere.
Io temevo di aver combinato qualcosa di irreparabile.
Lo abbracciai.
Lui si asciugò le lacrime, mi fece sedere accanto a lui sul letto e iniziò:

“Quando ero piccolo, ma già più grande di te, mi dissero che dovevo partire per fare la guerra. Io provai a scappare, ma sono dovuto partire. Anche dopo che fui partito provai sempre a scappare, ma non ci riuscii mai. Io non la volevo fare la guerra. Io volevo solo vivere. Scappavo non perché non avevo ideali, ma perché i miei ideali erano altri.
Un giorno mi catturarono. Parlavano un’altra lingua, ma una cosa la capii bene: un soldato infilò nel suo pugnale un tozzo di pane e me lo offrì. Se non l’avessi preso, sotto sarebbe rimasto il pugnale. Se lo avessi preso, sotto ci avrei trovato il pugnale.
Scappai finalmente. E diventai partigiano.
Mi diedero un fucile, su cui, alla fine c’era un pugnale. Serviva perché spesso non c’erano abbastanza proiettili, e così avremmo dovuto usare solo quello per combattere.”

“Nonno, ma tu lo hai mangiato poi il pane sul pugnale?”

Nonno non rispose. Gli occhi erano lucidi.

“Nonno, ma tu hai ucciso tante persone?”

Non rispondeva. Iniziò a piangere.

“Ricordati sempre che la libertà non è un diritto. E’ un dovere. Ricordatelo sempre!”.

Sono cresciuta, mi hanno insegnato la storia, la filosofia, mi hanno insegnato un sacco di cose. E stranamente tutte queste cose non mi hanno spiegato quello che mi raccontò mio nonno. Anzi, furono le sue parole che mi diedero gli strumenti per capire quello che mi insegnavano a scuola.

Mio nonno era un ciclista. Mi insegnò ad andare in bici. Mi raccontò che un tempo lontano la bicicletta era vietata.

Scoprii che si chiamavano GAP, che usavano la bicicletta e divennero i miei eroi.

Ogni anno, il 25 Aprile, proprio mentre penso a mio nonno mi capita sempre di vedere qualcuno in bici, o sentire la storia dei GAP in radio.

Odio i coltelli. Ho imparato a scappare. Mi batto per quello in cui credo. E mi ripeto in continuazione che la tua libertà inizia dove inizia la mia.

 

 

 

25 Aprile 2014
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